Investimento in istruzione: convenienza, rischio, rendimento
Investire in istruzione rende, dunque, come sapevano da tempo i nostri nonni e padri. Ma l’economia (per la verità l’econometria) dà a questo senso comune il conforto di una “prova” e di una “misura”. Il nuovo saggio di Franco De Anna.
In un altro precedente intervento sulla rivista proponevo una riflessione, per la verità assi provocatoria, che, tentando di supportare criticamente l’apparente “senso comune” che considera l’investimento in istruzione come necessario e vantaggioso perché “comunque” produttivo (ce lo hanno sempre ripetuto saggiamente i nostri nonni e i nostri padri), proponeva di considerare i fattori di rischio connessi all’investimento stesso.
La provocazione era: “investire in istruzione è come investire in derivati”.
L’approfondimento critico proposto: la generica e generosa convinzione che comunque si tratti di un investimento conveniente e necessario va misurata criticamente con le condizioni, la natura dell’investimento stesso, la sufficiente razionalità delle decisioni, confrontate con gli elementi di rischio contenuti.
Ne concludevo, appunto, la necessità di “spacchettare il derivato istruzione” nelle sue componenti di rischio e, in particolare, di concentrare l’attenzione sul “patrimonio istruzione”. Più è elevato quest’ultimo (accedendo a una semantica ampia della metafora “patrimonio”: l’istruzione non è solo patrimonio direttamente misurabile in valore economico. Ma ciò vale anche per le imprese, per esempio in termini di reputazione e affidabilità) minore è il tasso di rischio connesso all’investimento.
Ora, sul filo di quella riflessione, si colloca un contributo autorevole comparso sul bollettino della Banca d’Italia “Questioni di Economia e Finanza”, n. 53, Settembre 2009, di Federico Cingano e Piero Cipollone (inutile ricordare che quest’ultimo è il Presidente dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione, INVALSI).
Il lavoro, assai più autorevole della “provocazione” citata, è intitolato “I rendimenti dell’Istruzione”. Esamina stime di rendimento dell’investimento in istruzione attraverso una complessa strumentazione econometrica, e sembra concludere che, in generale, i rendimenti sono superiori a quelli medi misurabili per investimenti in titoli pubblici (non ci vuole molto…) e in fondi comuni. Il rendimento medio si aggira infatti sopra l’8%, con significative variabilità sia territoriali, sia per ordini e gradi di studi.
Insomma, anche solo limitandosi a considerare i valori medi complessivi, si tratterebbe di un investimento, bensì a lungo termine, ma di rendimento più che certo e più remunerativo di altri usualmente ricercati e ottenuti mediamente dalle famiglie nell’impiego dei propri risparmi.
Investire in istruzione rende, dunque, come sapevano da tempo i nostri nonni e padri. Ma l’economia (per la verità l’econometria) dà a questo senso comune il conforto di una “prova” e di una “misura”. Anche solo di ciò dovremmo essere grati agli autori, in una fase in cui l’attenzione è rivolta alla limitazione, anche drastica, della spesa in istruzione. Pur essendo avvertiti che i termini “spesa” “investimento” sono tutt’altro che equivalenti, ci è insomma di qualche conforto la considerazione che i denari impegnati in istruzione abbiano un buon ritorno futuro, di valore tale da giustificare “economicamente” il sacrificio presente di non destinarli a consumo o a impegni più immediatamente remunerativi.
Semmai dovremmo chiedere agli “econometrici” qualche esercizio di approfondimento, anche e soprattutto con discriminazioni quantitative, sulla linea di confine che passa tra “spesa per istruzione” e “investimento in istruzione”.
Non so se l’invito sarà accolto, ma so per certo che la riflessione e il contributo che qui sto commentando avrà, in un futuro assai prossimo, un seguito di pubblicazioni più estese e argomentate, che sono in preparazione da parte degli autori stessi.
Naturalmente l’affermazione “l’istruzione rende più dell’investimento in titoli” ha un grande effetto mediatico, e puntualmente ha prodotto commenti “affermativi” e consonanti sui maggiori quotidiani. (Con qualche smemorato “l’ho sempre detto” dimentico delle medesime diagnosi di “sfascio” elaborate sulla scuola italiana a ogni uscita degli esiti delle rilevazioni internazionali, le cui tabelle sono lette con altrettanta superficialità, proporzionale solo alla ricerca dell’effetto immediato/mediatico).
Ben venga quell’enfasi, spesa per causa giusta; ma vi è il rischio che, pur esaltandone il lavoro, non renda merito opportuno all’interesse che la ricerca che stiamo commentando racchiude in sé, sia per ciò che afferma, sia per quanto vi sia implicito, sia infine per le prospettive di analisi che propone e che si potrebbero sviluppare in seguito.
Vale la pena di procedere con ordine, almeno ad alcune notazioni essenziali. (Leggi il saggio completo).
Franco De Anna